Tribunale della mente - Corrado Benigni

Tribunale della mente di Corrado Benigni - Interlinea, 2012: una lettura

Vivi nelle tue parole, respiraci. Così è, questo è dato. “Tutto è nelle parole” dice l’incipit de “Il testimone” (pag. 36): io che scrivo/dico/affermo sono testimone, questo il significato (che si completa rendendosi ancor più lampante con il “Testimoni di noi stessi” della Sententia a pagina 26). Nell’espressione del giudizio (giudizio che ci abita, che indossiamo sempre), oltre una possibile formula, le parole consentono non (solo e sempre) un verdetto chiaro, ma aprono anche il loro lato oscuro (invisibile, quindi ancora da chiarire, da vedere). Nella (ri)formulazione dello stesso giudizio (“risaliremo”, infatti) attendiamo che si dia luogo (forse) al suo contrario (e questo è il cammino, il nostro, una prova, un tentativo: “fino a prova contraria” viene esplicitato a pagina 36).
Tant’è che “Sulle parole saremo giudicati” (e su quelle non dette lo saremo da una voce precedente, perché “Tutto è già stato / e ci chiama” ne “Il giudice”, pag. 38 – o si noti in tal senso “il precedente” di pagina 27 e di pagina 35). Dovremo dare voce con evidenza di parola (e, aggiungerei, di sostanza poetica) a un tempo senza voce che sentenzia (pagg. 21, 38, 50).
Ed ecco quindi l’invito: “Fra queste parole, scrivi anche le tue” (“L’imputato”, pag. 37); “e non tacere nulla” è l’altro tassello dell’invito (ne “Il testimone”). Sì, perché c’è spazio fra un lato e il suo contrario, fra un luogo e l’altro (luogo e non luogo) di possibili formulazioni di un giudizio. Spazio di luce, spazio di verità. Nell’incertezza, necessariamente, dato l’al di qua che abbiamo, anzi, che siamo.
“Il tempo gira come una chiave”: potremmo portare ‘oltre’ la poesia di questo verso, (ancora:) ‘riformulandolo’, togliendo – quasi per sfizio – un “come”, ed ecco: “Il tempo gira una chiave”. La sua, che gira per noi, evidentemente: noi suoi figli, figli del Tempo (“la sola giuria”, pag. 70).
Perché un’alleanza è venuta meno, “un’alleanza si rompe”, si legge a pagina 9 (è lo “scisma” che chiude il libro a pagina 80). Tra un ‘di là’ e un ‘di qua’, tra un ‘alto’ e un ‘basso’ girano ritmi diversi.
Saremo assolti? (ovvero: saremo salvi/salvati? – e non dovremmo chiedercelo come espresso nel primo verso di pagina 54, ma provarlo). Se sì, sarà tramite una “morsa” (in apertura di “Onere della prova”, pag. 7), una volta che il tutto di tutte le parole respirate diventerà cenere: allora il chi si stringe tra esistente e sepolto, stretto in mezzo ai vivi e ai morti a dominare ogni interrogazione. Chi parla? – mentre il “crimine” continuamente si consuma (tra “colpe etiche degli incolpevoli” e “riserve mentali degli innocenti” scrive bene Buffoni in quarta di copertina). Tu è la risposta: tu scrivi, dichiara, tu non tacere, nulla. “Giudica”, appunto. E potremmo dire: giùdica(ti), ben oltre i riti, il tempo (in minuscolo, stavolta: l’“orologio da caricare” di pagina 23). Non ti turbino i ritardi di un ‘disordine accettabile’ – dice il poeta – per quanto inevitabilmente terrestre e terribile. Fino a dire che esiste un “Tutto” nell’ordine e un “Niente” nella ‘sviste’ della legge (“Il pubblico ministero”, pag. 39 – ed è meraviglioso, sempre in questo senso, il verso: “da questa legge scucita dall’indice”, pag. 74).
Ordine: stella fissa (pag. 30); noi: stella variabile. Il disordine dunque altro non è che peculiarità dell’uomo, la sua ragione (ratio: misura) consapevole “di nessuna verità”; un “sonno” (pagg. 9,10,18, 24: un “sonno della ragione”?) che lascia prefigurare (constatiamo difatti “molte crepe”, pag. 9 e poi pagg. 11 e 31) nuove forme/formulazioni, ricostruzioni.
È, appunto, il “tribunale della mente” ossia la mente è/diventa tribunale, fuor di alleanza, fuor di verità.
Mentre il crimine si consuma, si diceva, continuamente. Tu-io-tutti siamo “ciò che abbiamo commesso” (pag. 13); l’abbiamo commesso,  pare non ci sia scampo (“nessuno è innocente”, pag. 26, o “nessuno è incolpevole”, pag. 74). È insito nel nostro cammino: qualcosa abbiamo commesso e una colpa c’è, sempre (primo verso di pagina 53), è nelle prove (prova: cammino – “nostro è l’onere della prova”, pag. 76).
Resta da cercarne il senso. Proveremo, sì, possiamo solo provare a trovare una soluzione, ma una soluzione non c’è. Da spendere abbiamo soltanto una formula fondata sulla norma, ma la verità vi ruota attorno (splendida l’immagine del “cardine” a pagina 15). Non si ferma, la verità, non si lascia guardare. Per questa ragione la Giustizia appare bendata.
Rimettiamo perciò “il caso” (il senso) al “termine ultimo”, si afferma – ed è cruciale – a pagina 16. Termine, questo, che richiama a una fondamentale esigenza (anche e fortemente poetica): ripristinare l’alleanza di tempi diversi (passato/presente, sopra noi/in noi) per dare il nome a cose senza nome (“la giustizia non ha nome”, pag. 50 – da notare, in aggiunta, la chiusa di pagina 47). Nell’“ultimo grado del giudizio” troveremo forza da qualcosa di sepolto (pag. 25) e, nella stessa prospettiva, l’invito: “sussumi il silenzio alla parola” (pag. 68) si carica di significato. Questo anelito di ‘riconciliazione’ lo vediamo ancor di più splendere nel verso: “nel cielo che la parola invoca” che chiude la poesia di pagina 77, rafforzato dall’altrettanto limpido verso: “Nell’attesa sta il richiamo di ogni verità” (pag. 71 – e si noti anche il primo verso di pagina 74).
In noi/Da noi, nella nostra colpa di sempre, troveremo (forse) assoluzione (salvezza). Da questa legge scucita dall’indice trovare la crepa, attendere la luce, ri-fare: compito dell’uomo, “tra il sangue e la parola” (pag. 58), compito della poesia, “verbo che torna all’infinito” (pag. 61).
                                                                                                                                                      C. P.

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