Questo spazio può essere nostro - Agostino Cornali

Questo spazio può essere nostro di Agostino Cornali - Lietocolle 2011: una lettura

Perché immaginare? Perché dobbiamo rappresentare.
Rappresentare significa dare corpo a qualcosa che non c’è, figurarlo, ex nihilo. È quanto accade in politica, ad esempio in democrazia: il corpo parlamentare si edifica unicamente tramite rappresentanza, a partire dal niente. Il demos, se così non fosse, resterebbe niente.
Lo stesso può avvenire nella scrittura, e in poesia: “niente (parola-chiave del libro) a imporsi su ogni figura, e su ogni paesaggio”, scrive giustamente Giancarlo Pontiggia nella prefazione.
Partendo dal “niente,” - isolato verso della poesia a pagina 37 - si evoca il potente “nulla nessuno in nessun luogo mai” degli Strumenti umani di Sereni, diluito poi qui in diversi moltissimi punti: “Nessuno sa nulla.” (p. 14); “niente, fingendo di non sapere” (p.16); “nessuno ci convince” e “nessuno ritorna” nella medesima poesia, Porte de Vanves, a pagina 18. E così proseguendo, con altre negazioni, cancellazioni (“Non mi consola” e “non bastano le parole” [p. 33]; “cancelliamo i nomi di tutte le vie” [p. 32]; “qualcuno che non voglio” e “in una lingua che non conosco” [p. 35]; e ancora il verso: “che non accadrà mai”, associato al finale: “che non avrete commesso” della poesia A scuola [p. 38] o in più passaggi nella poesia successiva, Capodanno a Venezia, o in modo insistito nel finale di pagina 30).
Cornali, per costruire sul nulla, richiama a sé in esergo Charles Simic: “The world is old, it was always old, / There’s nothing new in it this afternoon”. Costruire un edificio che una volta rappresentato però si dissolva presto per tornare al vuoto del nulla, questo pare l’intento del poeta. Per raggiungerlo, adotta e fa sua la cornice di un pomeriggio perenne: ce lo figuriamo, appunto lo immaginiamo, questo pomeriggio, lunghissimo, sospeso in un tempo smisurato. Dentro, la tela è una composizione di paesaggi, di zone, luoghi, ricordi personali, psicologie. Scampoli dunque, ma tutti riconducibili a uno, un solo paesaggio e un solo sguardo.
Ed è il vuoto a dominare questa tela, seppur riempita. Quel vuoto cui il nulla fa ritorno; vuoto-“spazio” del nulla e matrice del titolo. Si tratta di qualcosa di amato, nel cerchio di un’utopia puntellata continuamente dal desiderio (e non potrebbe essere diversamente): “Questo spazio può essere nostro” nasce - così l’autore ha avuto modo di svelare – dalla semplice osservazione di un cartellone pubblicitario ancora inutilizzato, uno dei tanti ai bordi delle strade, con la possibilità di metterci una pubblicità; spazio acquistabile, riempibile perché diventi mio-tuo-“nostro”. Di qui, dunque, l’innesco del desiderio. E aggiungendo a quanto detto il verso che si legge a pagina 18: “nessuno ritorna,” unito ai versi di pagina 21: “Allora non è vero, non è vero / che nessuno ritorna,”, viene voglia di scomodare Nietzsche, il mondo nel suo ripetersi, tutto che ritorna e il mondo del divenire che si avvicina a quello dell’essere come culmine della contemplazione. Consapevolezza nichilista – desiderio – eterno ritorno – amor fati: potrà apparire azzardato, ma sembra esserci una traccia profonda di questi elementi tra le pagine del libro. Contemplare, edificare tramite mappe di ricordi, immaginare.
“L’intelletto (la veglia) pensa mediante astrazioni, la poesia (il sogno) mediante immagini, miti o favole”. Rileggendo queste parole di Jorge Luis Borges - scritte nel 1981 - e unendole a quanto pronunciato da Yves Bonnefoy nel 2004: “Sì, insisto, è l’immaginazione a fare da ostacolo alla poesia… (Poesia è) memoria del qui e dell’ora, sciolta dagli inganni che l’immaginario moltiplica”, si cade – volentieri – in un’aporia.
È quanto fa l’autore, sapendo di essere qui e ora e “di essere altrove” (Strassendorf – p. 24). Biforcazione accettata (desiderata), soprattutto quando amplifica il più possibile il senso dello sconfinato nella percezione della pianura. Pianura padana, che indubbiamente lo affascina, aprendogli una densa fantasia del sommerso, del subacqueo. Nebbie come fondali, abissi. È così nella bellissima Guidando di notte nella bassa padana, dopo un inizio ancora una volta carico di negazioni e di “nulla”; così nel finale di Sostrato celtico; così in Mietitrebbie. Una fantasia d’immaginazione che presenta poi variazioni sul tema o che si mescola ad altre, affini, e sempre giocate in pianura (“la tigre delle mille possibili altre vite”, unita a un “camminando all’indietro” entro una chiarissima citazione montaliana [p. 30] o “la voce sommessa” e “l’ultrasuono” che compaiono in Un inverno in pianura).
Allarga così il campo perché facilmente si possano vedere riemergere (è il caso di dirlo, come in un mare) “punti”: sono persone, punti di luce, si tratta di particolari dentro scene di vita ordinaria, dettagli, brani di memoria. E tende al racconto, Cornali, “costruisce” la poesia con un piano logico ordinato, una misura sapiente, raccogliendo fotogrammi, muovendo nel testo istantanee con l’idea che potrebbero poi facilmente snodare in prosa. Tesse quella tela in un pomeriggio in cui non c’è niente (o tutto) di nuovo, in cui il mondo è sempre stato, sempre stato vecchio (e nuovo).

                                                                                                                                               C. P.

                                                                                                                                                                                                                                     
                                                                                                                                                                         

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